Avv. Angiolo Bertocchi

UN'IPOTESI SULLE ORIGINI DI ARZENGIO
FRAZIONE DI PONTREMOLI

"Ostium et non Hostium" : Entrata e non dei nemici, quindi entrino gli amici. Stemma di un casato importante (forse i Cavalieri),dove la scritta sopracitata viene ripresa da un'altra pietra ora scomparsa che fungeva da architrave, di foggia identica ad alcuni architravi che si possono ammirare nella parte più antica di Volterra, della porta di accesso di una probabile antichissima taverna. Il portale ora dà adito al negozio ora esistente, ma in origine dava accesso al fabbricato di proprietà del casato.

Ogni volta che ritorno ad Arzengio, specie da quando i ritorni hanno dovuto farsi più rari, trovo che il cemento ha ricoperto, per sempre, una qualche pietra di quelle che, all'occhio esercitato, testimoniano l'esistenza, in passato, di costruzioni di un certo rilievo, edificate in epoca ben precisa. Fino ad una ventina di anni fa, ne erano visibili almeno 200; di queste alcune, circa 150, ancora collocate nel loro originario sito. Ora sono visibili non più di una cinquantina di tali pietre; alcune, probabilmente, nella loro originaria collocazione saranno una quarantina); le altre, reimpiegate, qua e là, in costruzioni per lo più del XVIII secolo. Tali rimasugli, non isolati ma incorporati in costruzioni di molto successive e tuttora in funzione, per le caratteristiche della lavorazione dei blocchi e del loro accostamento tradiscono la preesistenza di edifici, non più ricostruibili, nei loro profili essenziali, neppure nella più fervida delle immaginazioni, ma certamente di rilievo importante, databili all'epoca della repubblica romana.


Cristo Salvatore "tunicato" per non polemizzare con ariani che sostenevano che un Dio non poteva soffrire, quindi, essere crocifisso. Opere simili sono visibili a Dobbiana (MS), Lucca e Fornovo (PR).

Visto dalle circostanti alture, il paesino, nel suo nucleo antico, si presenta come un agglomerato di case di modeste dimensioni; accostate l'una all'altra senza apparente criterio logico. Ne risulta un che di assai pittoresco, per i tetti che sembrano rincorrersi; per le finestre, ciascuna di foggia e dimensioni sue proprie, occhieggianti, in beata anarchia, con espressioni mai allegre, ma fra l'ironico ed il malinconico.Ciò che importa, ai fini di queste note, è che l'agglomerato, che segue, quanto a livelli, l'andamento del colle, è contenuto, quasi per intero, dentro un ben preciso perimetro di forma ellittica, circondato da una stradina che si può percorrere, iniziando dalla casa Pasquali e, voltando a destra, fiancheggiando le case dei Bianchi-Bardò, poi dei Bianchi (ora Gussoni); quindi dei Tonelli (ora Venuti). Proseguendo, senza voltare a sinistra, si arriva sotto casa Giovanni Cattini (ora Bertolini), sotto la casa Pinotti-Bianchi (detta "la barca" ora Magnani); quindi "sotto le case" dei Venuti (i Sorsi), compresa quella, ora, detta di Pellegrino; sotto quelle dei Talamini (ora Pietro Cattini) e, infine, sotto quella dei Bianchi (ora Luciano Venuti) per giungere in "larpian"; dove le case dei Cavalieri e dei Donnini (ora Guido, Giancarlo Pinotti-Bianchi e Alberto Venuti) hanno debordato un pò, rompendo il primigenio perimetro; tanto è vero che, per raggiungere "ca' dal papa" (case dei Cattini) ed il punto donde si è partiti, occorre percorrere come i due cateti di un triangolo rettangolo. Il primitivo perimetro doveva descrivere come un arco teso sulla ipotenusa e verso la parte interna di questo triangolo. Trattasi, all'evidenza, di un insediamento fortificato; e la stradina che si è or ora percorsa era la circonvallazione, nel senso più genuino del termine: circum vallum. Le pietre che, per il pericolo del loro probabile, totale nascondimento a non lunga scadenza, mi hanno indotto a queste note, ne sono la riprova.

Brani del muro di cinta della "arx romana" (170 circa a.c. - Roma Repubblicana).

Il punto più interessante era, fino ad una ventina di anni fa, ai margini del cosiddetto orto di Vitalino. Sotto gli archi della loggia (abbastanza recente) che si affaccia sul lato sinistro, sono tracce di vecchie costruzioni; sono tracce illeggibili, però, almeno con i miei mezzi. Non è, quindi, possibile datarle, anche se, sotto il primo arco a sinistra, residua la traccia di un arco il cui ardimento non è rapportabile ad un edificio da servire ad un gruppo di contadini, per di più assai poveri, per l'avarizia dei suoli coltivabili. Dovette necessariamente trattarsi di una costruzione di carattere militare. In fondo all'orto, dove ora è un bellissimo cespuglio di agrifoglio, esiste un troncone di muro sul quale è appoggiata la casa di Angelo Zanetti. E' un troncone lungo quasi quanto la casa, da quel lato; alto direi, circa due metri. E', per la verità, alquanto a strapiombo verso l'esterno, per cui il proprietario, per timore che venisse compromessa la statica della casa, ha pensato bene di appiccicarvi, impiegando del cemento, una specie di contro-muro ad inclinazione opposta. Il risultato è che non si vede più nulla. E quello che era il documento più prezioso per la storia del paesino è sepolto per sempre. Per carità, ognuno può disporre delle proprie cose a suo piacimento, e poi, in fin dei conti, nulla a questo mondo è eterno ... Sta di fatto che nessuno vedrà più quel bellissimo troncone di muro. Tutti, però, almeno quelli dai trent'anni in su, sappiamo che, sotto quel cemento, c'è; e sappiamo anche come è fatto. E' fatto di blocchi di macigno, di dimensioni uguali, a forma di cubo avente il lato, se mal non ricordo, di 40 cm circa; e posti in opera in guisa tale da far ritenere, con un grado di probabilità pari alla certezza, che trattasi di muro appartenente ad una costruzione che si può far risalire al tempo della repubblica romana. Quindi, il paesino di Arzengio è costruito sui muri di un insediamento di una certa rilevanza, risalente a tale epoca. Pietre di simile foggia, una quarantina circa, anche se di dimensioni un pò più consistenti, sono ancora visibili sotto la volta che da casa Pasquali porta a casa Zanetti (lato opposto a quello di cui ho parlato sopra), nel muro di destra. Pur rimboccate, negli interstizi, con malte di varie epoche, sono con ogni probabilità ancora nella loro situazione originaria e facevano parte di una costruzione non più leggibile; per certo imponente. Si tratta molto probabilmente di un brano del muro di cinta. (Ho detto, sopra, che la circonvallazione ha subito la variante da "larpian" a "cà dal papa"). Altre pietre, aventi le medesime caratteristiche, si trovano, reimpiegate qua e là. Ad esempio, un paio si trovano sotto la volta fra la ex stalla di Alfredo Zanetti ed il fienile dei Noiosi; altre nelle parti basse del voltone ("al tanùn") di Alberto Venuti; e così via. Questo pochino che resta è sufficiente per attestare l'esistenza di un insediamento, non certamente agricolo ma militare, di notevole imponenza e di grande rilevanza strategica.

Pietra sacrificale rinvenuta in occasione di uno scavo per la realizzazione di un muro di contenimento, alla profondità di un metro circa,
in località "Val" di Arzengio; difficile per la sua originalità comprenderne la funzione. Parte terminale di una condotta d'acqua?
Più probabilmente trattasi di pietra sacrificale per riti propiziatori della fertilità, data la forma chiaramente allusiva. Il manufatto risale certamente al periodo in cui la zona, anche per la presenza di acque sorgive, era abitata dai Liguri Apuani ( V°/VI° secolo a.C.)

E allora, occorre volgere l'attenzione a ciò che è accaduto in alta Lunigiana all'epoca alla quale possono essere fatti risalire i brani di muro di cui ho parlato, per trovare la ragione per cui fu edificato il complesso di cui facevano parte. Terminata la seconda guerra punica (201 a. C.) e ritrovata la fiducia nella loro potenza i Romani, dopo avere pareggiato, alla loro maniera, i conti con alcune città, già loro soggette o con loro federate, che avevano dato aiuto ad Annibale (Capua e Taranto ad esempio), si risolsero alla conquista dell'Italia settentrionale. Già prima della seconda guerra punica avevano gettato i presupposti, costruendo la via Flaminia fino a Rimini, conquistando Milano e fondando le colonie di Piacenza e Cremona (222 a. C.). Muovendo da questi presupposti, già nel 198 a.C., ridussero alla ragione gli Insubri ed i Galli Boi e fondarono, dove sorgeva la Fèlsina etrusca, la colonia di Bononia (l'attuale Bologna). Mentre gli Insubri e i Galli Boi si resero subito conto che era impossibile resistere a Roma ed opposero, quindi, una resistenza assai blanda, altre popolazioni si mostrarono irriducibili. Erano costoro i Liguri. In passato, avevano occupato gran parte dell'Italia settentrionale, praticamente dalle Alpi Marittime al Garda. All'epoca che interessa, essi occupavano il complesso appenninico che si estende dalle Alpi Marittime fino all'altezza di Bologna, circa. Vivevano ancora in regime tribale ed erano distinti in tre complessi di tribù: i Liguri Frignati, che avevano il loro epicentro nell'Appennino emiliano a ridosso di Modena (l'attuale Frignano); i Liguri Ripuari: insediati nelle terre che compongono, grosso modo, l'attuale Liguria; ed i Liguri Apuani: insediati nella attuale Lunigiana; a nord e ad ovest del gruppo dell'Orsaro travalicavano ed arrivavano a lambire la piana del fiume Taro. Più o meno discordi su tutto il resto, questi tre gruppi di popolazione erano d'accordo nella irriducibile avversione a Roma, consci che qualsiasi forma di compromesso con essa avrebbe implicato la rapida scomparsa delle loro etnìe. Tutti avevano parteggiato per Annibale e lo avevano aiutato nel tragitto dalle Alpi al Trasimeno. Fra i tre gruppi, maggiormente fiero ed irriducibile risultò quello degli Apuani. Roma scelse il mezzo più radicale ed efficace per <<bonificare>> la zona dove erano insediati. Se anche l'alta Lunigiana non era destinata ad accogliere grandi vie di comunicazione che, come sappiamo, passeranno altrove (la via Emilia e la via Aurelia), i Liguri Apuani, se lasciati al loro posto, avrebbero finito per recare continuamente disturbo, a nord, ai traffici sulla via Emilia e, a sud, a quelli sulla via Aurelia. Per eliminare simile pericolo, i Romani pensarono bene di catturarli e deportarli in massa. E così fecero, portandoli nel Sannio, in quel di Benevento.

Segno di una preesistente finestrella, facente parte probabilmente della prima chiesa di Arzengio, orientata verso Nord, riempita poi, in occasione della costruzione di una seconda chiesa , fino al piano di campagna attuale. Sull'area, nel 1600, fu costruita la cappella di una confraternita intitolata a S. Rocco; andata in disuso anche quest'ultima, col decreto di Napoleone che vietava la sepoltura in luoghi chiusi , fu privata del tetto ed adibita a cimitero.

Tutti, meno, probabilmente, qualche sparuto gruppo che riuscì a restare nascosto nei punti meno accessibili delle montagne. Da questi pochi scampati originarono, forse, i paesini dello zerasco. L'operazione fu condotta dal console Cornelio e si concluse nell'anno 180 a.C. Si trattò, all'evidenza, di una operazione colossale, che richiese grande impiego di uomini e di mezzi; e tutta la tecnica militare acquisita dagli eserciti di Roma. Si fissarono punti fermi per il concentramento delle truppe e quant'altro, conforme l'arte bellica del tempo. A nord dell'Appennino sorse Forum Novum (Fornovo), destinato, probabilmente, anche al concentramento dei << rastrellati >> in quel versante. Al di qua, il punto di concentramento fu Luni, dove stava sorgendo il porto che avrà, in seguito, l'importanza che sappiamo. Si eressero, dalle nostre parti, a dominare la valle, due roccheforti-punti capitali: una di qua ed una di là rispetto al corso del fiume Magra. Più in basso, ancora oggi, i toponimi indicano i luoghi dove si assediarono le truppe. Abbiamo, ad esempio: Opilo (Oppidum = piazzaforte); Muncastra (mons castrum = monte accampamento). Quanto alle due roccheforti citate pocanzi sono, senza dubbio, Arzelato (arx elata = roccaforte elevata, portata in alto) ed il nostro Arzengio. Ed è così spiegata la presenza, in Arzengio, di tracce di costruzioni che si possono far risalire, per le loro caratteristiche, esattamente a quell'epoca Romana. Chi osservi la situazione dal piazzale della nuova chiesa di Arzengio, si rende conto di come chi teneva queste posizioni strategiche avesse il controllo di tutta la vallata dell'alta Lunigiana. L'impressione poi è ancora più viva se l'osservazione viene fatta da Arzelato. Ed ecco perché l'insediamento fu munito di opere di tanta rilevanza. Il nome Arzengio, poi, non lascia dubbi. La prima parte deriva certamente da << arx >> (roccaforte-punto capitale). Non è con certezza spiegabile la seconda parte. Non condivido l'opinione di chi farebbe derivare il toponimo da: << arx gentium>>, attribuendo al genitivo plurale del sostantivo << gens >> un significato diverso da quello usuale (che è << delle genti >>) e traducendo in <<roccaforte dei gentili>> (nel senso di pagani). E' un'opinione introdotta, credo, da don Marzocchi, cultore di lettere e parroco di Arzengio verso gli anni venti del secolo scorso. L'opinione ha indubbiamente un certo fascino, per la perfetta assonanza e per il fatto che il nucleo abitato rimase pagano fino ad epoca assai avanzata. Il fascino dell'assonanza svanisce tosto che si pensi che, nel 1200 ed oltre, il paesino era chiamato << Arzegno >>. Maggiore consistenza parrebbe avere il secondo argomento.

Traccia dei pilastri della chiesa di S. Rocco.

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S. Rocco (1345/50-1376/79)

Pellegrino originario di Montpellier in Francia. Durante il suo pellegrinaggio per Roma si prodigò nella cura degli appestati. Ottenne alcune guarigioni, tra le quali quella di un alto prelato della Curia Romana, che furono ritenute miracolose. Durante il viaggio di ritorno (passò anche per Arzengio per la via di Monte Bardone conosciuta anche come via Francigena?), giunto a Piacenza si ammalò a sua volta di peste. Si ritirò in una foresta vicino alla città dove sarebbe stato nutrito da un pane recatogli quotidianamente da un cane. Guarì e riprese il viaggio verso la Francia. Giunto ad Angera (VA) si rifiutò di farsi identificare, in base al principio che chi operava la carità dovesse rimanere in incognito. Fu per questo incarcerato nella Rocca ed, evidentemente perché ancora debilitato dalla malattia da poco superata, in carcere morì. Le sue spoglie furono sepolte a Voghera (PV) e, in un secondo tempo, portate a Venezia.

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Tutta l'alta Lunigiana fu evangelizzata assai tardi. La lapide nella chiesetta di San Giorgio a Filattiera ricorda un personaggio (personalmente ritengo trattasi di un monaco bobbiense) che infranse gli idoli, in un certo anno del regno di Astolfo. Siamo, quindi, a metà dell'ottavo secolo. Che, ad Arzengio, il cristianesimo, oltre ad arrivare tardi (come nel resto dell'alta Lunigiana), possa avere incontrato anche una notevole resistenza, pare reso palese dal fatto che gli edifici destinati al culto di tale religione sorsero a notevole distanza dal nucleo abitato; assai più in là rispetto al punto dove sorge l'attuale nuova chiesa. Probabilmente la nuova religione attecchì fra qualche gruppo di pastori che si erano insediati fuori dalle mura e dai coltivi. Ma non credo che tale eventuale riluttanza a rinnegare le divinità pagane abbia potuto avere tanta risonanza da determinare la specificazione dell'<< arx >>, non specificata prima di allora. E questo perché, all'epoca, l'insediamento doveva essersi ridotto a dimensioni numeriche assai esigue; ed in condizioni economiche tutt'altro che fiorenti (gli antichi soldati erano diventati contadini). Basti pensare che, ancora negli statuti pontremolesi, ci si preoccupa con apposito paragrafo di vietare agli abitanti di << Arzegno >> di coprire le loro case con tetti di paglia! Se si vuole dare all'<< arx >> una specificazione (e la ebbe certamente, fin dall'origine), e si vuole che c'entri il sostantivo latino<< gens >>, questo sostantivo si deve intendere usato al genitivo singolare, e cioè << gentis >>, rassegnandoci alla perdita del << nomen >> di questa << gens >>. Quindi: << arx gentis... >> seguito da un << nomen >>, sempre al genitivo singolare, andato definitivamente perduto. E' un'ipotesi. Ma rispetto a quella cui ho poco sopra accennato, può trovare suffragio nelle seguenti considerazioni. Svuotata la Lunigiana da i suoi scomodi abitatori (i Liguri Apuani), non è pensabile che i Romani l'abbiano abbandonata a se stessa. Il dominio, acquisito senza mezze misure, doveva essere conservato, per evitare che, in zona tanto isolata, per la sua conformazione orografica, dal resto della penisola, si riformassero sacche di popolazioni ostili a Roma ed ai suoi traffici a venire. Certamente nella zona furono lasciati veterani dell'esercito conquistatore e, nel punto, forse strategicamente più importante, ne rimase un gruppo omogeneo in quanto appartenente ad un'unica << gens >>. (Il popolo romano dell'epoca era organizzato in << gentes >>: gruppi aventi una certa omogeneità per i vincoli del sangue, che avevano sostituito le precedenti -e non troppo lontane- tribù). E c'è una ragione per cui l'<< arx >>, che diventerà poi Arzengio, doveva esser molto importante anche ai fini della conservazione della conquista.

Traccia del giro d'apside della seconda chiesa, demolita alla fine degli anni venti del secolo scorso.

Ho detto che i Romani non costruirono, in questa zona, strade di capitale importanza; né pensarono di costruirne. Tuttavia, una strada di minore importanza, che univa la zona a Fornovo (allora Forum Novum), fu certamente costruita; rettificando, magari, ed ampliando vecchi sentieri liguri. E', con ogni probabilità, la strada che ancor oggi passa per il valico della Crocetta (che successivamente, data la sua importanza fondamentale per la zona, diventerà la via Francigena, e strada a carattere nazionale che, soltanto in questi ultimi anni é stata sostituita dalla statale della Cisa). Qualche piccolo segno è ancora visibile. Nel punto, ad esempio, denominato << i posaduri >>, dove la strada appoggia, per un tratto, praticamente sulla roccia, sono ancora in opera una ventina di lastroni simili, per dimensioni, a quelli che i Romani usavano per la pavimentazione delle loro strade. Nei secoli successivi, la strada fu mantenuta con ben più modesto manufatto, il cosiddetto << risë >> (acciottolato), che è un'invenzione medievale. Nel punto che ho detto, qua e là, in mezzo al << risë >>, sono rimasti i detti lastroni che, oltre ad essere incompatibili col concetto di << risë >>, non sono, se mal non ricordo, di pietra molto più resistente rispetto a quella -un'arenaria molto friabile- che si può cavare in sito. Furono, quindi, portati da altro luogo. Proseguendo, nel punto detto << muntada di masacri >>, si può notare un notevole taglio della fiancata del monte, per dare alla strada un percorso compatibile con la strategia del tempo. Sono segni di un'opera poderosa, anche se di non primaria importanza, che solo una potenza come Roma può avere progettato ed eseguito in quel tempo; non certo i successivi abitanti di Arzengio, divenuti, col pasare del tempo, contadini poveri; per portare a basso (con la << bèna >>, attrezzo romano anche nel nome) i prodotti della montagna. A tutela di questa strada, fu, con ogni probabilità, lasciato o trasferito un gruppo omogeneo, avente le caratteristiche di una << gens >>; e di qui, forse, la seconda parte del nome Arzengio. Si potrebbe anche, se l'indagine non portasse oltre i limiti che mi sono imposto, cogliere i segni di questa origine degli attuali arzengini, analizzando certe peculiarità del modo di pensare e di atteggiarsi; certi aspetti particolari della religiosità; almeno in soggetti fino alla mia generazione. Oltre alla difficoltà dell'impresa, non vorrei, per fraintendimento, urtare suscettibilità; quindi, vi rinuncio. Voglio solo aggiungere, prima di passare ad altro argomento che ritengo decisivo, un dettaglio, apparentemente insignificante, che si può cogliere nel dialetto di Arzengio.

A sinistra, targa con data sul campanile costruito per la chiesa demolita sul finire degli anni venti ed ancora in funzione per la chiesa attuale (da cui dista circa 100 metri). Lettere e cifre scolpite significano: "Populus Arzengi rectore Palino 1891 fecit". Traduzione: "Il popolo di Arzengio fece nel 1891 quand'era parroco Don Palini". A destra casa ex Guidi, ora Ratto: Stemma Mediceo fuori portale cui sono state tolte le palle (forse per negazione al proprietario del titolo di appartenenza alla casata).

I pronomi personali, e precisamente la prima e seconda persona singolare: << me >> e << te >>, usati indifferentemente sia come forma diretta che indiretta, hanno il suono della << e >> abbastanza stretto. E' la ragione per cui quelli della Costa e di Ceretoli, che pronunciano la << e >> di tali pronomi con suono decisamente d'oltralpe, talora prendono un pò in giro gli arzengini. Ebbene, quelle due forme pronominali venivano pronunciate con la stessa << e >> abbastanza stretta anche nella lingua di Varrone e di Plauto! Ed è naturale che siano rimaste tali e quali. A ben vedere, tutti i dialetti del nord Italia sono la risultanza, più che dell'innesto del latino sui vecchi ceppi linguistici, della semplificazione all'essenziale, mediante eliminazione di prefissi e desinenze, proprio delle espessioni latine. Ne risultano degli idiomi semplificati al massimo; efficaci, però, ed idonei alla comunicazione del pensiero entro comunità, divenute, nel frattempo, estremamente povere; e non solo materialmente. Il << me >> ed il << te >> non fu possibile semplificarli oltre: sono monosillabi: quindi sono rimasti quali erano in latino.

Si dirà: tutto questo da 200 pietre!

Per me ce n'è di troppo. C'è, però, e per fortuna, un'altra caratteristica del paesino, che ne conclama l'origine romana. E' noto che, quando i Romani assegnavano le terre conquistate ai veterani, procedevano alla suddivisione con un ben preciso metodo, detto << centuriatio >>. Fissato il punto centrale dell'appezzamento da assegnare, si tracciavano due linee perpendicolari fra loro: una da sud a nord e l'altra da est a ovest. La prima si chiamava cardo; la seconda decumano. Parallele a queste due linee fondamentali se ne tracciavano altre, a distanza determinata. Il risultato era che il suolo veniva diviso in tanti quadrati o rettangoli (a seconda delle caratteristiche del sito), tutti uguali per superficie, dei quali ciascuno era assegnato ad una centuria di veterani. Passando in aereo sulla zona tra Ferrara, Bologna e Modena, è possibile, ancor oggi, grazie agli istituti giuridici, peculiari della zona (le partecipanze agrarie), che governarono il possesso di quei suoli nei secoli successivi, vedere ben conservati e chiari i segni di siffatto criterio di divisione della terra. Tale criterio i Romani adottavano, salve le misure, anche quando costruivano gli accampamenti o gli insediamenti abitativi. Già da tempo, confrontando le poche pietre di cui ho parlato con altre, aventi le stesse caratteristiche, osservate in varie parti d'Italia, mi ero formato la convinzione che ho esposto. Quando, e non è molto, mi sono reso conto che anche ad Arzengio, per quanto su una specie di ogiva, fu edificato conforme il criterio << centuriatio >>, ogni residuo dubbio circa l'esattezza della mia opinione è venuto meno.

Hoc opus fecit io do doadis sugno 1565"; l'ultimo 5 scomparve 7/8 anni fa durante i lavori per la condotta del gas a causa di un errore dell'operatore della pala meccanica (danno visibile nella fotografia). La pietra era murata su un piccolo campanile a vela, a servizio della chiesa demolita, alla fine deli anni venti. Lettere e cifre scolpite significano: "Quest'opera fece io. do. (Joannes Doninus) 12 giugno 1565, (giorno della festa di San Basilide patrono di Arzengio), ora murata nella parte posteriore della chiesa attuale.

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San Basilide

Centurione romano che servì sotto l'imperatore Diocleziano, ed al suo ritiro sotto Massimino, Cesare d'oriente. Con ogni probabilità subì il martirio ad opera dello stesso Massimino , quando costui, nell'immediatezza della battaglia di Nicomedia, si sbarazzò dei suoi ufficiali cristiani per diffidenza verso gli stessi. La battaglia di Nicomedia, allora capitale d'oriente, contro Licinio, collega di Costantino, avvenne il 13 giugno 313 d.C. E' quindi logico pensare che il martirio sia avvenuto proprio il giorno prima, il 12 giugno, giorno in cui ancora oggi si festeggia il Santo.

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Partendo dal << castello >> (le case, da sempre, dei Pinotti-Bianchi) si arriva, direzione sud, al crocicchio con la stradina che, partendo da casa Tonelli - ora Venuti - arriva fino all'angolo di casa Romiti. La stradina che scende dal << castello >> apparentemente, oggi finisce qui, all'altezza di casa Sordi (i Ghia), dove esiste una fontanina pubblica. Quelli che hanno superato la cinquantina ricorderanno, però, che, almeno fino all'ultima guerra, era possibile proseguire e raggiungere la stradina di circonvallazione, a sud, attraverso una specie di chiasso, che si chiamava in dialetto, << al surchèt >>. E' semplicemente accaduto che, nel costruire la parte aggiunta della casa Sordi (probabilmente XIX secolo) e l'altra casetta, in fondo, che credo fosse dei Mazzetti (ora Bianchi Bardò), si è sconfinato di un metro circa. Le due stradine hanno orientamento da sud a nord e, rispettivamente, da est a ovest ; ed erano il cardo ed il decumano. Che, d'altra parte, il crocicchio formato da queste due strade avesse una funzione di centralità è reso palese da altro indizio. I luoghi fortificati diversi dalle città si chiamarono anche, nel tardo antico, << ville >>. Anche Arzengio assunse, evidentemente, in quest'epoca, tale denominazione di genere. Nessuno potrà negare che, ancora oggi, la zona su cui il crocicchio incide viene indicata come << an mes a la vila >>. Il decumano (la stradina Tonelli-Romiti) è interrotto, all'altezza di casa Romiti, da un terrapieno (<< l'ort ed Supin >>) e, più avanti dalla casa Donnini (ora Venuti-Bianchi). Il terrapieno è fatto, probabilmente, con terreno di riporto, risultato dallo scavo delle fondazioni della predetta casa Donnini. Nel costruirla non si è tenuto conto, come è accaduto nella parte verso << larpian >>, delle vecchie strutture. Verso i Tonelli, il decumano doveva proseguire, per una ventina di metri almeno, sotto il campo rialzato, detto << l'ort ed la sopa >>. Le altre stradine ancora esistenti sono parallele e, rispettivamente, perpendicolari a queste fondamentali. Una è pressoché intatta. E' quella che parte dalla casa di Pellegrino ed arriva, dritta e parallela al cardo, a casa Zanetti dove, abbiamo visto, giravano le mura. Un'altra parte da << la barca >> ed arriva dritta e parallela al decumano, alla casa di Pellegrino. Le due stradine non si intersecano più ad angolo retto. La prima, infatti, dopo qualche metro conforme al percorso primigenio, è costretta ad una specie di collo d'oca dall'inserimento del fabbricato, ora, di Angela Cattini. Riprenderà il suo percorso, parallelo al cardo, all'altezza di casa Ambrogio Bianchi. La seconda è interrotta, in quello che era il punto di intersezione, dalla costruzione delle case Talamini e Cavalieri - ora Pietro Cattini e Mario e Giovanni Pinotti Bianchi-. Ma ciò che mi ha riempito di vero stupore è la scoperta di un'altra stradina, ora, non più visibile. Mi renda testimonianza il Ragionier Angelo Venuti. Quando egli, non molti anni fa, restaurò la casa già dei nostri zii Tonelli e Pinotti Bianchi, nell'eseguire, sotto l'aia, lo scavo per la sistemazione, credo, della centralina termica, ha trovato intatta una stradina lastricata alla romana; detta stradina corre esattamente perpendicolare al decumano (nel punto, sopraelevato, nei secoli, di un paio di metri) e scende sotto l'aia dei Noiosi. Passando sotto detta aia e sotto casa, ora Mazzetti, va ad intersecarsi, ad angolo retto, con l'altra che dalla << barca >> va alla casa di Pellegrino. Dunque il paesino, rimaneggiato e tormentato nei secoli senza un criterio di massima e senza rispetto alcuno per le vestigia del passato, è riuscito a conservare questa traccia inequivocabile ed indelebile di Roma repubblicana, da cui trae origine. Personalmente ne ho la piena convinzione.

A sinistra il punto del ritrovamento dell'antica strada romana lastricata, ad un metro circa di profondità. A destra il punto dove le linee del cardo e del decumano si inrociano fissando il punto centrale del paese.

Voglio, però, dare il tutto come ipotesi; da verificare, se qualcuno avrà la necessaria preparazione, pazienza e buona volontà. Ammetto la possibilità dell'errore, perchè ho visto il tutto con gli occhi di un innamorato. E due sono gli amori che mi animano. Uno, corrisposto e fecondo, per tutto ciò che ricorda la grandezza di Roma; specie di Roma repubblicana. L'altro, un pò titubante, per Arzengio. E tale titubanza deriva dalla mescolansa di razze che in me si è attuata. Se per parte di madre (era una Pinotti-Bianchi) sono arzengino nel senso pieno della parola, per parte di padre rischio di essere Ligure Apuano: se è vero che i miei vecchi, da quella parte, vengono da Suvero. Un paesino già in provincia di La Spezia ma, etnicamente, ancora nello zerasco.
Ma gli antichi nemici, vincitori e vinti, sono da tempo in pace, anche dentro di me.
E pace sia.

A sinistra: Casa ex Guidi, ora Ratto: Maschera avente funzione apotropaica (tenere lontani gli spiriti maligni); interessante perché trattasi dell'unico esemplare presente in zona.
A destra: US FEIOD I
Frammento di scrittura esistente nella parte inferiore del piccolo architrave della porta che immette sulla loggia, nella casa ex Sordi ora Mascagna. Interessante è l'esecuzione della scrittura fatta per mezzo di due linee che corrono sempre parallele fra di loro; quasi a voler produrre una scritta in rilievo. Si legge la parte terminale (US) di quello che dovette essere il nome latino di un personaggio che compì un'opera di una certa importanza. Quindi, una parola completa: "FEIOD": evidente trasformazione verso la volgarizzazione del latino "FECIT". Di seguito dopo un segno di interpunzione una stanghetta (probabile parte iniziale della lettera M di quella che dovette essere la data del compimento dell'opera). Simile modo di scrivere si trova in una pietra murata nella fiancata sinistra della chiesa di Montelungo (MS) con frasi indecifrabili.


A mia madre, arzengina schietta.
Scritto e pubblicato su autorizzazione dell'autore.
" Perché il passato fiero, riecheggi vivo, nel silenzio di queste convalli...
per l'eternità "
Dedicato ad Arzengio, per sempre nel mio cuore.
Massimo Bianchi